Storia dei CANONICI REGOLARI
L'esempio degli apostoli
Ogni ordine
religioso afferma di rifarsi all'esempio degli apostoli e al modello cristiano
descritto negli "Atti degli Apostoli". "Essi perseveravano
nell'insegnamento degli apostoli.... Avevano ogni cosa in comune... Vendevano
le loro proprietà..." (At.2, 42-47). Si tratta, però, di un riferimento
ideale; cioè si vede nell'esempio descritto dagli "Atti degli
Apostoli" qualcosa di sublime, quasi utopistico che deve fermentare ed
ispirare ogni progetto di vita cristiana.
La vita religiosa si fa risalire al periodo
successivo alla prima generazione cristiana e si colloca più o meno a! tempo
del manifestarsi del monachesimo, cioè nella seconda metà del secolo terzo. Il
monachesimo avrebbe portato nella vita cristiana un progetto di vita diverso,
più impegnato e radicale, almeno in certe forme, di quello usuale a tutto il
popolo di Dio.
Invece i canonici
regolari affermano che la loro vita, la vita canonicale, risale ai tempi
apostolici. Affermazione bizzarra? Affermazione storicamente indimostrabile?
Affermazione dovuta alla tradizione seicentesca, quando con argomenti piuttosto
leggeri se non allegri dal punto di vista scientifico, si polemizzava tra i
vari ordini religiosi, alla ricerca di una improbabile longevità storica? Assolutamente
no. Si dice che la vita canonicale, cioè la vita comune del clero, ha avuto
inizio con l'esempio degli apostoli e dei loro immediati successori. Essi
diedero l'ispirazione ideale alla vita comune ed anche l'esempio concreto. Cioè:
concretamente pensavano che i cristiani, in particolare i sacerdoti, sarebbero
vissuti "insieme", "da fratelli", "in comunione".
La parola e la realtà
Occorre
intendersi. Certamente gli apostoli non hanno fondato alcun ordine religioso, né
sapevano che cosa fosse la vita religiosa, almeno nel senso del diritto
canonico. Anche la stessa parola: "vita religiosa" ha acquistato valenze e significati diversi. Come quella
parola, tante altre hanno avuto nel corso dei secoli uno sviluppo di
significato che, a volte, sembrano totalmente divergenti
Facciamo un esempio. La parola "Congregazione" cosa vuol dire?
Oggi, nel nuovo
diritto canonico, esprime ed indica: un dicastero della curia vaticana. Nel
diritto canonico precedente (1915) denotava ed indicava: "una
religione" (altra parola dai significati ambigui) di voti semplici;
cioè un raggruppamento di religiosi che aveva il nome di "ordine
religioso"; oppure, se si trattava di monaci, denotava un
raggruppamento di monaci con a capo un superiore generale. Mentre per indicare
un ordine religioso il nuovo diritto canonico usa la parola "Istituto
di vita consacrata". In antico la parola "congregazione"
aveva vari significati: a volte indicava una comunità singola, a volte un
organismo composto da varie case, a volte il semplice fatto che alcune persone
vivessero insieme in forme di vita religiosa.
I Canonici
regolari non sono stati fondati dagli apostoli; in quel periodo non ci furono
forme di vita religiosa contrapposte a forme di vita secolari. secondo il
nostro vocabolario. Però la vita canonicale risale al momento apostolico perché
esprime la vita comune del clero. Gli apostoli e i loro immediati successori
prevedevano per tutti i cristiani la vita comunitaria: questa hanno lasciato in
eredità. Forse l'esempio può apparire pretenzioso,
tuttavia si può dire: come "lo spezzare il pane" indica un
ideale ed una forma concreta di celebrazione, così la "vita comune"
esprime un ideale ed un orientamento concreto da applicare.
Questa vita comune
ebbe soprattutto all'inizio, forme spontaneistiche, non sempre omogenee e
continue; tuttavia tracce ed immagini di questa vita comune sono
rintracciabili. Alcune nostre osservazioni non hanno la forza della
dimostrazione; alcune tracce non sono specifiche della vita comune del clero,
ma della vita cristiana in genere; altre, invece, sono pertinenti e specifiche,
ma dall'insieme ci sembra che risulti chiaro come i canonici regolari, nella
chiesa di Dio, abbiano portato avanti da sempre il carisma della vita comune del
clero.
I Padri Apostolici
L’esperienza fatta
sotto l’entusiasmo della Pentecoste è rimasta sempre nella nostalgia della chiesa: "Essi perseveravano nell'insegnamento degli
apostoli..." Ma è anche un modello concreto di vita, perché ogni chiesa
che sorge dalla predicazione apostolica è retta almeno da un collegio di
anziani, assistiti da diaconi; attorno al presbiterio si svolge tutta la vita
della chiesa: predicazione, culto, assistenza. Le testimonianze sono indirette,
perché la chiesa ha iniziato a vivere, prima di teorizzare.
I primi testimoni,
i cosiddetti "Padri Apostolici", pur sapendo di essere i
successori degli apostoli ed esprimendo la coscienza della loro vicinanza col
tempo e col mondo apostolico, prendono l'iniziativa esitanti, consapevoli della
grande distanza morale dagli apostoli. Provavano più o meno quello che avevano
provato gli apostoli quando furono "senza" Gesù.
Gli argomenti
principali di questi primi scritti cristiani sono, in sostanza, due:
1) la polemica
contro il giudaismo;
2) La comunità,
l'armonia della vita ecclesiale.
Il primo argomento
non interessa il nostro studio; il secondo, invece, sì; e dimostra come fosse
una specie di preziosa eredità che essi non intendono assolutamente dilapidare.
Come la polemica col giudaismo è un
importante argomento in quanto si tratta di difendere la verità cristiana,
così l'intervento sulla comunità è un serissimo argomento in quanto riguarda
anch'esso la verità cristiana: la vita cristiana è vita di comunità. Le promesse fatte al popolo dell'Alleanza sono diventate realtà in Gesù
Cristo; ma Gesù Cristo è stato riconosciuto come inviato e Figlio di Dio da un
popolo nuovo, i cristiani. Si ricordino, essi, di non tralignare e vivano la
"nuova legge" della carità. E, visto che anche l'unico rito che fin
dai giorni di Cristo risorto - lo spezzare il pane - è un forte richiamo
unitario e comunitario, i cristiani si sentano chiamati a vivere l'eucarestia
nel profondo rispetto della comunione con tutti i credenti. La dimensione comunitaria,
dunque, fin da principio emerge come fondante e caratteristica. Anche il
battesimo, che segna il passaggio e la conversione, pone i cristiani di fronte
alla esigenza di fedeltà dei propri impegni "nella comunità", per
rispetto ad essa, per l'edificazione di essa.
Tiepidezze, disordini,
ambizioni, ricerche dei primi posti, cupidigia del possesso sono le insidie,
non lette tanto in chiave intimistica e personale, ma in chiave comunitaria: è
la chiesa che si rilassa; è l'assemblea che degrada; è la pace e l'unione
della chiesa che viene minacciata e compromessa!
Chi sono questi "Padri Apostolici"?
Ci sono
pervenuti alcuni scritti risalenti alla prima o al massimo alla seconda
generazione post-apostolica: alcuni sono anonimi, altri addirittura apocrifi
(cercavano nella falsa attribuzione apostolica credibilità e prestigio).
Ricordiamo: "La Dottrina degli Apostoli o Didaché"; "il
Pastore di Erma": "Lettera di Barnaba"; "Seconda
Lettera di Clemente"; ecc.
A noi
interessano alcuni di loro, per la forte accentuazione che hanno nel discorso
comunitario, con testimonianze sullo prime realizzazioni della vita
comunitaria.
CLEMESTE
ROMANO.
Autore
di una lunga lettera indirizzata alla chiesa di Corinto per correggerla ed
esortarla in occasione di uno spiacevole scisma scoppiato al suo interno.
Secondo
S. Ireneo, Clemente sarebbe stato il terzo successore di S. Pietro;
Tertulliano, invece, afferma che Clemente fu ordinato dallo stesso S. Pietro.
Egli, con il richiamo al ravvedimento, a piegare "le ginocchia del
cuore", intende restaurare la pace e l'armonia della chiesa, non solo a
Corinto. L'uso intensivo della S. Scrittura sottolinea l'esitazione per la
propria iniziativa autorevole, ma anche la fonte e la ragione della stessa
autorevolezza.
IGNAZIO
DI ANTIOCHIA. (†circa
il 110).
Dalla
esperienza bruciante: scrisse sette lettere durante il viaggio verso Roma e
verso il martirio, sotto la vigilanza sospettosa e dispettosa delle guardie,
alle comunità cristiane ("chiese") toccate nel percorso; ecco perché
parliamo di esperienza bruciante: lo stato d'animo di uno che sa di camminare
verso il martirio è certamente sovreccitato.
Le sue
lettere non offrono riflessioni teologiche precise e magari pedanti: sono
piuttosto l'effusione immediata e partecipe di un uomo forte nella fede e teso
a rendere la propria testimonianza. Tuttavia possono essere definite come
"la introduzione alla storia antica"[1]
per il complesso di notizie sparse sulla vita della chiesa e per la documentazione sul clima di fede.
Autentico "teoforo"
(portatore di Dio), Ignazio è il maestro di unità ecclesiale ed è il primo ad
attestarci esplicitamente l'evoluzione delle strutture ministeriali della
chiesa. Parla, infatti, di
vescovi, che presiedono come Gesù
Cristo, di presbiteri, che proseguono la comunità apostolica, di diaconi, che li aiutano nel servizio assistenziale. Così ci delinea l'ordinamento
di una comunità cristiana all'inizio del secondo secolo; e a tutti porge il suo
perenne invito a vivere in comunione. Nella lettera ai fedeli di Smirne, ad
esempio (8, 1-2), afferma che la comunità cristiana deve seguire il collegio
dei presbiteri, come gli apostoli, e che nei diaconi deve onorare la legge di
Dio. Dunque, sia pure nel suo stile entusiasta, Ignazio nomina "un collegio
di presbiteri".
POLICARPO
DI SMIRNE. († tra il 155 e
il 166).
"C'imbattiamo
con lui in un portavoce autorevolissimo della tradizione apostolica, essendo
stato ancora - secondo la chiara asserzione del suo discepolo Ireneo - in un
diretto rapporto con diversi apostoli e conoscendo, perciò, perfettamente la
narrazione da loro fatta quali testimoni oculari della vita e dell'insegnamento
del Signore".[2] Di lui è
rimasta una lettera scritta alla chiesa di Filippi ed un frammento di una
lettera pastorale.
L'organizzazione della
Chiesa
Alla fase cherigmatica
dei primissimi anni, in cui l'annuncio di Dio era confortato dalle persone che
avevano conosciuto Gesù, succede la fase catechistica. cioè quella della
esposizione più ragionata e sistematica della fede.
Ci sono, infatti,
delle legittime domande degli ascoltatori cui rispondere: questo passaggio è
già visibile nella testimonianza delle lettere di S. Paolo. La catechesi dei
primi secoli, a sua volta, non sarà organizzata in una precisa disciplina. Ma
tutto nella vita di quel periodo (liturgia, catechesi, strutture) cresce con
la vita, giorno per giorno, anno per anno, e sempre con il cuore dei credenti
volto al modello evangelico di carità e comunione.
L'impressione è
che, in confronto allo sviluppo della teologia, nel periodo post-apostolico, il
progresso nel completamento della struttura ecclesiastica sia
incomparabilmente più ampio ed importante. E la cosa è normale e credibile:
era la vita che premeva; una vita "nuova", non solo nell'intento teorico
e nel dettato dogmatico, ma anche nelle forme esteriori del rapporto
quotidiano con la gente, con la politica, con il lavoro, con la famiglia, con
la cultura.
I cristiani si
raccolgono in comunità: le chiese locali. Ciascuno si raduna con i propri
"fratelli" per la celebrazione dell'Eucarestia, si preoccupa
dei poveri, assiste i carcerati, educa o collabora per la crescita dei
catecumeni. Ci sono liste di vedove, di poveri, di presbiteri. Lista o
canone (kanon) cioè un elenco di persone o di incarichi.
È questo il primo
significato del termine
"canonico", presso ogni
chiesa: registro, cioè, dei presbiteri che esercitavano la loro funzione presso
una determinata chiesa (oppure: registro dei poveri o delle vedove che la
chiesa assisteva). Essi erano iscritti "en to kanóni".[3]
Il concilio di Nicea,
in seguito, fisserà per i presbiteri la norma della stabilità, in modo da
creare per la chiesa una sorta di garanzia e regolarità del servizio religioso. Ma già nel 305, nel meno conosciuto concilio di Elvira, si prospetta per i
vescovi, i presbiteri e i diaconi la norma del celibato: "Fu deciso di imporre
ai vescovi, ai presbiteri e ai diaconi, o comunque a tutti i chierici addetti
al ministero, di astenersi completamente dai rapporti coniugali e di generare
figli; chiunque, invece, continuerà a farlo, sarà radiato dall'onore
dell'ordine clericale".[4]
Il celibato, in realtà, si affermerà molto lentamente; si tratta di un carisma
che si vuole estendere come legge e come sistema. Ma quello che importa a noi è
notare come la premura per la vita comune del clero porti a prevedere anche il
celibato per il clero stesso.
"A Roma case private venute in possesso
della chiesa per donazione o per lasciti furono
sistemate per abitazione di presbiteri (eventualmente con altri ecclesiastici)
e diventarono centro dell'attività pastorale. Verso il 300 esistevano a Roma da
16 a 20 di queste chiese cosiddette "titolari". (Titulus in origine era la tavoletta che indicava il
nome del proprietario di casa, più tardi il nome del martire o santo famoso).
Si attribuisce a papa Fabiano (236-250) la
divisione di Roma in sette distretti amministrativi, affidati a sette diaconi".[5]
Sembra che in ogni titolo vi fossero degli ambienti destinati ad abitazione
per il clero.
Se si compie una visita alle catacombe "Ad
Decimum", di Roma, vi si possono osservare, vicinissime l'una
all'altra, tre tombe: in una è deposto "Ianuarius diacomus",
in un'altra "Profitius lector" e nell'altra ancora "Faustus
exorc.". Probabile la conclusione che ivi vivessero insieme dei chierici,
che poi, insieme furono sepolti.
Con il moltiplicarsi dei fedeli, anche i
chierici si erano moltiplicati e le chiese cittadine avevano un clero numeroso.
In ogni titolo si trovava almeno un presbitero, ma più spesso due o tre ed
anche quattro: in questo caso il primo di essi era il titolare e si chiamava
"prior", gli altri: "secundus", "tertius",
ecc. Dei chierici inferiori, ciascun titolo aveva almeno un lettore.[6]
Altro elemento che contribuì all'instaurazione
della vita comune fu l'amministrazione dei beni ecclesiastici da parte del
vescovo. È noto che l'offerta spontanea dei fedeli era inizialmente per la
chiesa l'unica fonte delle sue entrate. La prima chiesa di Gerusalemme viveva
di offerte (At. 4,34 ss.) e S. Paolo parla di collette domenicali fatte nelle chiese
di Galazia e di Corinto (1 Cor. 16). Oltre che in denaro, erano anche offerte
cose e frutti in natura, primizie e decime, come fa fede la Didaché
(c.13), che richiama la legge mosaica al riguardo. S. Giustino ricorda la
prassi invalsa e la distribuzione delle offerte (Apologia, 1,67). Erano,
queste, le offerte ordinarie, fatte la domenica in occasione della riunione liturgica.
Tertulliano parla di una cassa comune, formata da libere contribuzioni mensili[7]
…Ogni chiesa aveva la cassa della comunità".[8] E con queste riflessioni sulla organizzazione della chiesa, che piano si
dispiega, abbiamo portato qualcosa di più convincente che non le prove
indirette ed allusive. Tuttavia le prove documentali sono del terzo secolo. Ad
ogni modo si può ragionevolmente pensare che la vita comune del clero era
l'unico e il vero progetto di vita all'inizio della chiesa. I sacerdoti, cioè,
non vivevano isolati e separati, ma "insieme": annunciavano e davano
concreto esempio della comunione voluta da Cristo e praticata dai primi
cristiani intorno agli apostoli.
Catecumenato e liturgia
Una pista importante per osservare e
comprendere la vita e l'organizzazione dei primi cristiani e quindi le loro
scelte e i loro orientamenti è
quella dello studio del catecumenato e della liturgia. Anche essi ci
testimoniano dello slancio comunitario della chiesa delle origini. "Catechumenus", dice Tertulliano, è colui che per nascere
a vita nuova ricerca una formazione dottrinale adeguata e si esercita
concretamente nelle virtù cristiane.[9]
Il catecumenato impegnava tanto i candidati
quanto coloro che si adoperavano per la loro preparazione. Adrien Nocent fa
ripetutamente osservare che "chi battezzava e colui che dovrà
esserlo", digiunano uno o due giorni prima del battesimo, insieme,
accomunati nella tensione verso la meta di fede.[10]
Lo testimoniano la Didaché, Tertulliano, Ippolito di Roma. Le prime
testimonianze di uria organizzazione catecumenale e della iniziazione
cristiana, dunque, presentano un taglio di vita di profonda partecipazione
comunitaria, nei momenti salienti della intera comunità cristiana.
E l'Eucarestia?
Clara Burini ha un
interessante capitolo sulla "Concelebrazione Eucaristica".
"E' proprio l'aspetto assembleare, il "convenire" il
partecipare di tutti i fedeli, insieme al "presidente",
attorno ad una stessa mensa, o ad uno stesso altare, che ci permette di parlare, per così dire, di "concelebrazione
eucaristica" e non di semplice partecipazione, né tanto meno, di presenza"[11] Dice la Didaché:
"Riuniti nel giorno domenicale del Signore, spezzate il pane e rendete
grazie (euchearistesate) dopo aver confessato le vostre colpe, affinché
sia puro il vostro sacrificio". (10,6); cioè ad ognuno che partecipa è
richiesta la purezza e la santità, poiché nell'assemblea convocata è presente
Dio stesso e il sacrificio dei fedeli, riuniti, non deve essere contaminato o
dissacrato dalla colpa di qualche fratello. A
noi, forse, è venuto meno questo stringente senso comunitario, per cui la
vittoria sul peccato significava anche rispetto verso la comunità; non sentiamo
nemmeno più con immediatezza, come gli antichi cristiani, e con vero
convincimento che la comunità dei fedeli è sacramento della presenza del
Signore. "La celebrazione di un'unica eucarestia in una comunità «costituisce
un ideale al quale si tende decisamente";[12] ma non in senso astratto,
come ai nostri giorni, bensì con la fattiva e concreta realizzazione della
vita e nella vita.
Questo
dimostra, allora, che il clero in quei tempi conduceva vita comune?
Forse non abbiamo una "dimostrazione" come due più due fan
quattro; tuttavia i tanti segnali che abbiamo accumulato parlano abbastanza
palesemente “di vita comune”.
Il clero viveva intorno al proprio vescovo, era iscritto in un elenco, era
impegnato a preparare al battesimo, a celebrare l'eucarestia con la comunità, a
celebrare sempre comunitariamente la penitenza, ad assistere i poveri e ad
amministrare i beni della chiesa. Tante esigenze che reclamavano una presenza
continua, garantita soltanto da una forma di vita in comune. Dottrina e prassi
alimentavano la comunione fraterna.
Col venir meno degli apostoli, la chiesa fa capo al vescovo; e: membri de!
presbiterio rimangono i suoi collaboratori, con lui impongono le mani,
concelebrano, oppure celebrano al suo posto. In questa collaborazione
ministeriale del presbiterio col proprio vescovo possiamo vedere, se non la
dimostrazione, certo il germe della vita comune del clero.
Capitolo Secondo
I primi esempi di vita comune
del clero
Dire che il progetto di
vita della chiesa delle origini prevedeva la vita comune (anche e soprattutto
per il clero), non significa che in realtà questa sia stata attuata sempre e
dovunque. Così come il Battesimo esige che i cristiani entrino nella "vita
nuova", che è dono dall'alto; ma dire che il battesimo lo esige, non
significa che i battezzati realizzano la vita nuova, in coerenza col proprio
battesimo. La vita comune era, comunque, voluta, proposta, desiderata, ed anche attuata
in forme spontanee, familiari, volenterose.
I primi tempi della chiesa
furono tempi creativi, carismatici ed anche difficili. Tra le difficoltà che
non fecero applicare in pieno gli ideali della vita apostolica, di solito
vengono nominate le persecuzioni. Esse obbligarono il clero ad una vita instabile,
clandestina e separata, perché minacciata. Le persecuzioni rappresentano un
capitolo coraggioso e ineguagliabile della storia della chiesa: anche un
tantino romantico e forse supervalutato. Grande difficoltà portò anche il
problema della inculturazione della fede, anche a motivo della rapida
accelerazione delle conversioni (volontarie e forzate).
Nel II secolo la "Lettera
a Diogneto" (5,5) diceva: "Ogni cristiano risiede nella sua
patria, ma come uno straniero domiciliato...Ogni terra straniera per i
cristiani è una patria ed ogni patria è una terra straniera". Questa
contrapposizione tra "cristiani" e "pagani"
sarà ripresa e marcata dagli Apologisti e porterà alla classificazione
tripartita della gente: Pagani (cioè: Romani e Greci), Giudei e Cristiani.
Quindi i cristiani non si sentono integrati nel mondo, ma piuttosto separati
ed in opposizione (senza calcare troppo in simili classificazioni).
Mentre nel secolo V-VI
"Romanità" vorrà dire "Cristianità";
rappresenterà l'insieme dei cittadini che hanno sulla terra: Roma cristiana,
come capitale, mentre aspirano alla patria celeste. Un bel cambiamento! Ma la
chiesa risolse brillantemente il problema della inculturazione, sia per la
carica di fede che la sorreggeva, sia per la semplicità ed immediatezza delle
scelte concrete. Tuttavia il problema in sé non poteva contribuire alla
stabilità ed omogeneità della vita; per cui non sempre e non dovunque vi fu la
vita comune.
Il Monachesimo
La vita comune (cenobitica) esce
dal generico e balza come autentico progetto di vita col nascere del
monachesimo.
"Il movimento
monastico cristiano iniziò talmente in sordina, che gli storici fanno talvolta
fatica a descriverne le origini con esattezza. Gli studi recenti, però, hanno
evidenziato come il fenomeno monastico è apparso, nel corso della seconda metà
del III secolo, in diverse aree della cristianità in maniera autonoma e
simultanea".[13]
"I vescovi furono
generalmente favorevoli al monachesimo e intervennero con nuove leggi di
vigilanza. Lo stato ecclesiastico, eminentemente apostolico, non pareva
compatibile con la vita eremitica, ma nelle città si ebbero anche sacerdoti
monaci, per quanto la caratteristica del monachesimo fosse quella di essere
laico".[14] Vi furono
vescovi che, non solo conobbero, ma praticarono anche il monachesimo prima di
essere eletti alla dignità episcopale: se ne conoscono di quelli che fondarono
monasteri dove risiedevano, per poter continuare con i monaci la vita comune.
Ricordiamo alcuni di loro,
particolarmente conosciuti e famosi: S. Ilario (†367). vescovo di Poitiers; S.
Basilio (†379); S. Martino (†100) vescovo di Tours: S. Epifanio (†103) vescovo
di Costanza (= Salamina) di Cipro.
La vita monastica non è la stessa cosa che la vita comune del clero, certamente:
tuttavia non è nemmeno facile o giusto separarle nettamente o addirittura
contrapporle. La vita del monaco, pur nella sua austerità, non era
incompatibile con la permanenza nel mondo; le condizioni di ingresso alla vita
monastica non erano precisate e le prime "regole", rudimentali, non
ne parlavano e di fatto non era infrequente il caso di sacerdoti che erano
contemporaneamente monaci; le differenze tra un cristiano serio e un monaco
erano di sfumature e il monaco poteva essere chierico. In realtà la vita comune
si manifestò anche nel clero nel medesimo tempo del monachesimo (nella forma
austera e severa del monachesimo, ma rispettando la natura pastorale del
clero). Abbiamo - documentati - almeno gii esempi di due vescovi, che vollero
la vita comune per il proprio clero nelle rispettive diocesi: S. Eusebio,
vescovo di Vercelli. S. Agostino, vescovo di Ippona. Forse si dovrebbe
nominare anche S. Zeno (†372) vescovo di Verona, il quale parla dei suoi
collaboratori nel ministero come di "operai che stanno con me"[15], l'espressione suggerisce
una forma di vita comune, ma da sola non ha forza dimostrativa. Anche S. Gerolamo
potrebbe essere incluso tra coloro che promossero la vita comune del clero:
personalmente ebbe esperienze monastiche, però suggerì vigorosamente la vita
comune e il distacco dai beni anche ai chierici.
I primi testimoni della
vita comune del clero.
S. Eusebio (†371), vescovo di Vercelli. Nativo della Sardegna, fu lettore della chiesa
di Roma e dal 345 primo vescovo di Vercelli. Per le controversie ariane fu
perseguitato e mandato in esilio: in Palestina, in Cappadocia, in Egitto.
Questo peregrinare gli permise di conoscere la vita degli anacoreti e i
monasteri dei cenobiti. Quando tornò in patria, a differenza degli altri
vescovi, che diffusero la vita monastica nelle loro diocesi, Eusebio l'introdusse
tra il suo clero, adattandola naturalmente alle esigenze del ministero
sacerdotale. Lo sappiamo dalla lettera che S. Ambrogio indirizzò (verso il
396) al clero di Vercelli: ''Se nelle altre chiese l'elezione di un vescovo
costituisce un grave problema, in quella di Vercelli si richiede un impegno
ancora più grave; difatti dal suo vescovo si esigono contemporaneamente
l'austerità di un monaco e l'adempimento dei doveri sacerdotali. Primo tra tutti
in Occidente, Eusebio di santa memoria, unì fra sé questi due ordinamenti
diversi; cioè, stabilitosi in città, mantenne l'ascetismo dei monaci e resse
la chiesa con austerità... Giustamente il mondo lo osservava per
imitarlo".[16]
Non si conoscono altri dettagli sull'istituzione eusebiana, non si sa nemmeno
se essa si mantenne e per quanto tempo tra il clero di Vercelli, dopo la morte
del santo vescovo. Siamo, invece, informati più abbondantemente sull'attuazione
della vita comune tra il clero realizzata dal grande S. Agostino di Ippona.
S. Agostino (351-130): non è il caso
di ribadire l’eccezionalità della sua figura, sia per la storia della chiesa
sia che per quella della cultura in genere; Agostino appartiene ai geni
dell'umanità. Ciò che a noi interessa in modo particolare è mettere in luce
come il santo sia vissuto con il suo clero. Infatti la vita comune del clero è
legata al suo nome. La sostanza del suo esempio si trova descritta in due
discorsi che egli stesso tenne al popolo verso la fine della sua vita. Gli
furono ispirati dal famoso e doloroso caso del prete Gennaro, che era vissuto
con lui nello stesso monastero dell'episcopio di Ippona e che prima di morire
aveva fatto testamento, contravvenendo, così, alla regola fondamentale della
vita comune di non disporre di beni. "Sapete tutti, o quasi, come noi
viviamo in episcopio, cercando di imitare per quanto ci è possibile, quei santi
di cui parlano gli Atti degli Apostoli: nessuno considerava proprio ciò che
possedeva, ma tutto quello che avevano lo mettevano insieme... Perciò volli
accanto all'episcopio un monastero di chierici... Il chierico ha assunto in sé
due impegni: la vita consacrata e il servizio clericale... (Serm. 355). I
presbiteri... sono i poveri di Dio. Nulla hanno portato a questa nostra casa se
non la ricchezza che abbiamo più cara: la carità. A chi vuole riservarsi delle
proprietà e vivere di queste, comportandosi, così in modo contrario alla nostra
regola, non basta che non permetta di rimanere con me: non intendo neppure che
sia chierico". (Serm.356).
La pratica della vita comune del clero, difesa da un "patrono"
tanto ascoltato e venerato si diffuse ovunque, non solo nelle regioni
dell'Africa, ma anche oltre mare, portatavi dai figli spirituali di S.
Agostino. Lo testimonia Possidio, che fu tra i primi discepoli che si
raccolsero intorno al santo nel monastero di Ippona e che fu successivamente
vescovo (di Calama, nella Numidia proconsolare) e biografo di S. Agostino.
Quando il santo, il 28 agosto del 430, finì la sua vita terrena, Ippona era
assediata dai Vandali. Il 19 ottobre del 439 anche Cartagine fu presa da essi e
su tutta l'Africa settentrionale si scatenò, furiosa, una persecuzione del re
Genserico, ariano fanatico, contro la chiesa cattolica. Con la dispersione dei
vescovi e dei sacerdoti, sparì anche la vita comune in quella parte del mondo.
Questa, però, era stata amata ed altamente apprezzata come un tesoro, aveva
trovato seguaci anche oltre i confini africani; la dispersione del clero
africano nei paesi mediterranei contribuì a rinfocolarne la diffusione.
Nella
Gallia meridionale, in particolare, ma anche in altre nazioni, la vita comune
del clero fece presa. Ne è prova l'opera di Giuliano Pomerio "De vita
contemplativa".[17]
Giuliano Pomerio (†nei primi anni del VI secolo) era nativo della Mauritania (Africa del
Nord), venne nelle Gallie e si fissò ad Arles, dove fu ordinato sacerdote.
Probabilmente egli presiedeva, ad Arles. una associazione o gruppo di chierici,
riuniti in vita comune. Sulla vita comune egli riflette nell'opera citata, che
può essere definita come una specie di regola pastorale per il clero. Vale la
pena di fermarci un poco su di essa, sia perché citata poco di frequente, sia perché
ci aiuta a far luce sulla vita del clero dell'epoca.
Essa
ci documenta almeno tre cose: 1) che durante la seconda metà del secolo V la
vita comune del clero, con la perfetta rinuncia al possesso, era praticata
nelle Gallie, segnatamente ad Arles. 2) Esaminando i consigli che l'autore dà a
coloro che non hanno l'animo di distaccarsi completamente dai loro beni, si
deduce che vi fosse anche una forma di vita comune più blanda, cioè non quella
che S. Agostino difendeva (probabilmente era consentito il possesso parziale o
totale dei propri beni terreni). 3) Infine l'autore propugna come ideale di
vita per il clero in genere, cioè per tutto il clero, il distacco completo dai
beni ed esorta alla povertà volontaria: chi si dedica al ministero sacerdotale
distribuisce i suoi beni ai poveri, dice, oppure alla chiesa da cui dipende e
da essa riceverà il necessario per vivere.
Discepolo ed amico di Giuliano Pomerio, fu S. Cesario (471/472-543),
poi vescovo della stessa Arles in un momento di grande importanza politica, quando,
alla rovina definitiva del mondo romano, si andavano consolidando i regimi dei
nuovi popoli (Ostrogoti, Visigoti, Burgundi, Franchi...). S. Cesario aveva
avuta una esperienza monastica, a Lérins; per questo, forse, aveva una
particolare sensibilità per la vita comune del clero. Contemporaneo, vescovo di
una grande chiesa, quella di Tours, vi era S. Gregorio (circa 538-594),
chiamato appunto di Tours, altro difensore e propagatore della vita comune del
clero.
Vita
comune = “Vita Canonica”
Tutti questi esempi riportati si rifacevano al regime di vita comune di cui
aveva scritto Giuliano Pomerio; cioè di chierici: tra i quali, c'era chi rinunciava
a tutto e chi conservava, in tutto o in parte, i propri beni. Alla base, però,
c'era la vita comune: la mensa, la preghiera, il lavoro pastorale, a volte il
lavoro per la formazione del giovane clero in una specie di seminari-monasteri
domestici.
La vita comune era influenzata dalla vita monastica locale, oppure era
animata dallo zelo pastorale del vescovo o dal prelato che vi era preposto. Non
esistevano "regole" particolari, di conseguenza non c'era un modo
univoco di concepire la vita comune del clero. Era definita genericamente
"Vita Canonica", nel significato di vita regolata, vita
secondo certe norme, vigilata, non scapricciata secondo il volere di ciascuno.
Oltre le testimonianze citate, essa comincia ad avere l'attenzione di sinodi o
concili locali, che si preoccupano della disciplina del clero e della sua
formazione, soprattutto riguardo la povertà e il celibato. In particolare
vanno ricordati i concili di Toledo (531; 589; 633, ecc.).[18]
Pian piano si forma l'idea
che nella chiesa la forma di vita idonea alla esemplarità e alla santificazione del clero, di tutto il clero sia la
vita comune, la vita canonica. Essa, cioè, non sarebbe opzionale, ma necessaria;
realmente l'unica per tutti i sacerdoti. Ne abbiamo testimonianza dallo stesso
papa S. Gregorio Magno (papa del 590 al 604) che proveniva dal
monachesimo e aveva trasformato la casa paterna sul colle Celio (ad Clivum
Scauri) in un monastero. Quando fu papa, seguendo l'esempio del predecessore
S. Leone Magno, esigeva che i candidati alla vita ecclesiastica passassero un
periodo di probazione in qualche monastero. Ciò fa supporre che il santo pontefice
tentasse di abituare il clero alla pratica della vita comune.
San Beda il Venerabile, in proposito, ci riferisce che a S. Agostino
di Canterbury (l'apostolo dell'evangelizzazione dell'Inghilterra), che lo interrogava
sulla disciplina da applicare al clero, il papa rispose: "Devi applicare
lo stile di vita che all'inizio della chiesa adottarono i nostri padri: essi
non reclamavano beni personali, avevano tutto in comune.[19]
La parola "canonico"
o "vita canonica" non fa riferimento ad un particolare ordine
religioso di canonici. In questo periodo della storia, che va dal secolo V al
secolo XI, si può parlare genericamente di Istituzione canonicale come di una
forma di vita de! clero o di una spiritualità di esso, che viveva con impegno
la vita comune, secondo la volontà della chiesa.
"La prima menzione
giuridica di un canonico appare nel VI secolo, quanto il concilio di Clermont
nel 535, precisa le funzioni del chierico. Gli obblighi del suo stato sono: la
recitazione delle ore liturgiche, la fedeltà perseverante alla propria chiesa,
l'ubbidienza a! vescovo".[20]
“L'esistenza di queste
comunità canonicali è accertata per lo meno nel secolo VIII, infatti S.
Egberto, vescovo di York, (732-766) afferma: chiamiamo canoni le regole
scritte dai nostri santi padri; in esse vi è contenuto quanto debbono osservare
i canonici regolari".[21]
In questo caso la parola canonico viene fatta derivare dal greco di
"canon-regola", come spesso avverrà; in realtà, abbiamo visto,
"canon" vuol dire anche elenco, lista, matrice, misura, ecc; e
il primo significato che si incontra nella storia della chiesa è appunto
questo, per cui "canonico" significa: un chierico iscritto
nell'elenco di una certa chiesa locale.
"La stessa
espressione 'canonico regolare' appare per la prima volta nelle
Costituzioni di Galtero, arcivescovo di Sens (8S7-923)".[22] Lo stabilizzarsi del vocabolario è indice di un costume di vita ormai stabilizzato:
conosciuto e praticato. Ormai si delinea nella chiesa il convincimento che non
esistano altre forme di vita, per il clero, oltre quella monastica o quella
canonicale.
Capitolo Terzo
Le prime regole
canonicali
Dal secolo VII si
afferma lentamente una crescente distinzione tra vita monastica e vita
canonicale: la professione monastica, infatti, esige una prospettiva di
separazione totale dal mondo, mentre la vita canonicale esige efficienza
apostolica. Nel 633, il già citato concilio di Toledo chiedeva una vita comune
dei chierici, anche se blanda e mitigata, non esigendo la comunione dei beni.
Ma la vita comune
trovò difficoltà, non solo perché è pur sempre ardua in se stessa e
asceticamente impegnativa, ma anche a motivo delle condizioni politiche del
tempo.
Vescovi e abati
venivano nominati sempre più frequentemente sotto il controllo dei principi e dei
signori e quindi erano legati, spesso, ad interessi economici e politici. Il
loro stesso ruolo a volte li portava ad occuparsi di frequente e magari anche
in modo preponderante di attività materiali e mondane. Perciò non sempre erano
all'altezza del compito morale e spirituale, a volte anche dottrinale. Gli
obblighi politici (feudali) li tennero, spesso, lontano dalle loro sedi, per
servizi di corte, ambascerie, o anche per seguire sul campo le truppe, che
dovevano mettere a disposizione del signore.
La vita comune
nasce e si alimenta da una spinta ascetica: non poteva trovare alimento in
simili condizioni; e, d'altra parte, l'abbandono della vita comune portava il
clero al rilassamento. Un pericoloso circolo vizioso.
C'è, comunque, da
sottolineare anche un concetto che ha il suo peso, cioè che i canonici da parte
loro non avevano simpatia per la povertà assoluta, preludio di una vita comune
radicale di tipo monastico, che limitava e non rendeva del tutto libera la
presenza pastorale: questo ideale si affermerà più tardi, al tempo della
"riforma gregoriana", ma staccherà i canonici dai vescovi.
Ci furono dei
tentativi per mettere ordine o per lo meno di portare contributi
chiarificatori, sia per quanto riguarda l'aspetto giuridico (la natura del "canonico"),
sia per l’aspetto morale (il minimo necessario alla vita canonica).
La più antica regola canonicale:
S. Crodegango
S. Crodegando (712-736), nato ad Hesbaye (Belgio), formato in un monastero
benedettino (Saint-Trond), divenne cancelliere del re Carlo Martello e poi
vescovo di Metz (dal 754). Fu un uomo di grande pietà e zelo. Riunì intorno a sé
il clero della sua cattedrale e compose per esso una "regola"
per la vita comune, che ebbe larga diffusione ed è la più antica regola
canonicale.
I tempi erano maturi. Diversi decreti o prescrizioni sinodali o di concili
locali avevano chiesto che: chierici, sacerdoti e vescovi vivessero secondo
"i canoni degli antichi padri"; e gli abati e i monaci secondo la
regola di S. Benedetto.
Nel comporre la sua regola, Crodegango attinse largamente a quella di S.
Benedetto (era stato educato in un monastero benedettino), ma trasse anche
ispirazione dalla S. Scrittura, dai canoni dei concili, dagli scritti dei
Padri.
Nei suoi 34 capitoli, regolamenta minutamente tutto ciò che riguarda la
vita comune, le occupazioni giornalieri e i doveri del proprio stato per i
canonici. Questi sono chiamati: "clerici", "canonici",
"clerici de ordine canonico", "fratres".
La vita di questi canonici, per quanto riguarda le osservanze liturgiche,
quelle ascetiche, la clausura, il capitolo giornaliero, è ordinata in modo
piuttosto austero, sul modello della vita monastica. Più permissiva è, invece,
questa regola, per quanto riguarda la proprietà privata: i canonici dovevano
fare donazione dei loro beni immobili alla chiesa, conservandone l'usufrutto,
mentre restavano proprietari di quelli mobili e di tutto ciò che veniva loro
donato. Non che non conosca o non apprezzi l'ideale agostiniano della completa
condivisione dei beni: nel capitolo 31 parla dei "canonici che possono
lasciare tutto per amore di perfezione", questi poveri volontari saranno
mantenuti dal vescovo. Anzi: Crodegango afferma che questo sarebbe il vero
ideale: "ma ai nostri tempi non può essere prescritto in modo persuasivo".
Questa regola era destinata soltanto per i canonici di Metz. Ma, come già
ricordato, si diffuse rapidamente; segno che era venuta a colmare un’attesa e
corrispondeva ad una sensibilità culturale e spirituale che i tempi vivevano.
Ne comparve anche una redazione ampliata, destinata alle altre chiese.
Gli effetti di questa "regola" furono indubbiamente
notevoli. Il primo fu che introdusse il genere di vita monastica, in modo
preciso ed esigente, nella vita del clero, quasi a ribadire che non si può
disgiungere l'esempio personale dal compito pastorale. Si può discutere se la
spiritualità presbiterale coincida effettivamente e comunque con quella
monastica; ma è una dimensione, questa, della nostra problematica attuale, non
di quella del tempo di Crodegango: non si può mettere in discussione i grandi
meriti che l'ascesi monastica ha avuto anche nella vita del clero, per la sua
disciplina e per la sua spiritualità.
Il secondo merito sembrerebbe quasi contradditorio al primo ed è
consistito nel fatto che la regola di Crodegango valse a distinguere sempre più
la vita canonica da quella monastica; nel senso che fa comprendere che alcune
osservanze sono solo per i monaci ed altre solo per i canonici.
Saranno queste le uniche due forme della vita comune, fino al comparire
degli ordini mendicanti. Si deve anche osservare che tra la vita canonica e
la vita monastica c'è stata una continua osmosi; infatti, nel medesimo tempo in
cui i canonici prendono forme di vita monastiche a sostegno della propria spiritualità,
i monaci cercano il sacerdozio per la loro. Lo esigevano, infatti, la vita
liturgica e il desiderio ed anche la necessità di apostolato. Non bisogna mai
radicalizzare le cose, soprattutto nel giudizio sereno sulla vocazione alla
santità.
Ascesi ed apostolato sono dimensioni che appartengono a tutta la vita
cristiana; alcune forme di vita accentuano e privilegiano una dimensione
(contemplativa o ascetica), altre, invece accentuano e privilegiano un'altra
(apostolato o missione); ma senza esclusivismi. Inoltre l'apostolato, per noi
significa quasi esclusivamente la cura delle anime, magari nella vita
parrocchiale, mentre in antico era apostolato anche il servizio liturgico
solenne, il pregare per il popolo di Dio. il restare a disposizione per la confessione,
ecc. Attività più congeniali ai grandi monasteri, che erano punti di riferimento e di
attrazione spirituale.
La regola di Aquisgrana
La regola di S.
Crodegango, anche se adottata da altri vescovi per le loro chiese, fu
fondamentalmente un’iniziativa privata. I problemi dell'epoca esigevano,
invece, ben altri interventi: a volte non si capiva più se taluni religiosi
fossero dei chierici o dei monaci. Essi, maliziosamente, ci giocavano sopra per
coprire la loro vita poco esemplare. Il concilio di Magonza (813) prescriverà che i vescovi
visitino tutti i monasteri della loro diocesi e insieme con l'abate
interroghino i singoli monaci per sapere da loro, in tutta sincerità, quale
regola volessero seguire.
Interverrà lo
stesso imperatore. Già da parte di Carlo Magno la chiesa era stata oggetto di
costanti premure, con successivi interventi. Proprio nell'ultimo anno della sua
vita aveva promosso un’intensa attività conciliare; oltre quello di Magonza
già ricordato, altri quattro concili furono celebrati (Reims, Tours, Chalons,
Arles) "per correggere la vita delle chiese" ("super statu
ecclesiarum corrigendo").
Suo figlio,
Ludovico il Pio, continuando l'opera del padre, volle intensificare la riforma
di tutto il clero ed estendere la vita comune a tutte le chiese.
Lo stato
canonicale è ormai una forma di vita consolidata, una istituzione a cui si
pensa di dare una disciplina più sistematica. Venne, così, alla luce un'altra
regola canonicale, denominata "regola imperiale di Aquisgrana",
o di Aix-la-Chapelle, secondo la denominazione francese dell'epoca carolingia;
detta anche "regola omonima".
La redazione della
regola è contesa tra Amalario di Metz e Ansegiso di Saint Wandrille, ambedue
personaggi di riguardo del tempo; ma non è molto importante sapere chi dei due
abbia veramente scritto la regola.
Essa contiene 145
capitoli, dei quali 118 (1-113 e 126-130) riportano molti canoni e decreti
disciplinari dei concili (Nicea, Calcedonia, Antiochia. Laodicea), di sinodi
africani e brani di padri latini (Agostino, Girolamo, Gregorio, Isidoro, Giuliano
Pomerio: citato sotto il nome di Prospero di Aquitania, errore che è
perseverato a lungo). Gli altri capitoli (113-125 - 131-145) trattano
dettagliatamente della vita comune e della disciplina dei canonici, redatti
secondo la regola di Crodegango.
Questa regola, nel
complesso, mitiga quella di Crodegango; soprattutto è più permissiva ed
indulgente in materia di proprietà privata; ha, così, il torto di elevare a
principio una situazione che in precedenza, nella regola di Crodegango, era
soltanto tollerata. Ma il suo intento era lodevole: quello di generalizzare la vita comune del clero, che si voleva come unico
modello di vita per il clero.
Certo, c'è da
chiedersi con quanta concretezza si potessero attendere frutti buoni con delle
premesse talmente timide e di compromesso. Infatti, esigenza irrinunciabile
della vita comune è l'uguaglianza fondamentale tra i membri della comunità. Le
distinzioni e i privilegi creano distanze classiste e dividono, perché distruggono
la carità. Ma già: l'iniziativa partiva da una manovra politica più che da
un'attesa spirituale; anche se tutte le iniziative possono essere strumenti
della Provvidenza. Anche la vita di Ludovico il Pio non fu per niente facile;
per ben due volte si dovette sottoporre alla penitenza pubblica: "qui
pubblice peccat, pubblice poeniteat" ("q.p.p.p.p.": chi
pecca pubblicamente faccia penitenza pubblicamente).
Tuttavia al sinodo
di Aquisgrana importava soprattutto la rinascita della disciplina e della vita
religiosa del clero; la vita comune sembrava il mezzo adatto. Un rigore
eccessivo avrebbe potuto vanificare l'intento che la regola di Aquisgrana si
era prefisso; la vita comune sembrava il rimedio contro le piaghe della simonia
e del concubinato e poteva dare alla vita del clero la disciplinata serenità
che restituisse credibilità. In più apriva la strada verso la riconquista della
libertà del clero stesso. Infatti, se i chierici dipendevano dal signore, che
concedeva loro sostentamento e protezione, diventavano "in toto"
sudditi del signore e finivano per avere ridottissimi contatti col proprio
vescovo. E ancora, il riscatto della libertà del clero nella vita comune,
elevava il tono culturale e portava rinnovamento e dignità nella liturgia e
nella testimonianza, che si compivano in comunione.
Il sinodo di
Aquisgrana si occupò anche delle canonichesse: propose una regola anche per
loro, più breve (di soli 28 capitoli), sulla falsariga della regola per i
canonici.
Come valutazione
globale di queste due regole canonicali (quella di Crodegango e quella di
Aquisgrana), si può dire che, pur con tutti i limiti e le pecche vistose che
abbiamo segnalato, soprattutto le concessioni sulla proprietà, hanno avuto il
merito di salvaguardare l'ideale comunitario; inoltre hanno saputo adattarsi
alle condizioni del tempo: come dire che le concessioni che addebitiamo loro
come difetti, in realtà sono state, por altri ì versi, espressione di sagace
discernimento sulla difficoltà dei tempi e della mentalità corrente.
Invece il loro
limite più preciso è quello della loro origine, cioè il clima socio-politico che le ha fatte nascere
(più visibile nella regola di Aquisgrana): clima di compromesso, nel tentativo
di salvare il salvabile. Quando la logica di una riforma è di tipo
amministrativo, per forza di cose, diventa calcolatrice, con scarso respiro
interiore. Si contenta di una resa disciplinare, ma non apre vasti orizzonti
di speranza.
Il sinodo di
Aquisgrana fu celebrato nelI'817; diede il suo notevole contributo alla vita
canonicale anche per un altro motivo: la sua disciplina si adattava anche alle
chiese non vescovili. E Ludovico il Pio, infatti, la prescrisse a tutte le
chiese dell'impero. Egli, inoltre, ha un merito in più, perché donava
concretamente e generosamente quanto fosse stato necessario per la costruzione
di chiostri e canoniche presso le cattedrali ed altre chiese: il suo zelo gli
meritò giustamente il titolo di "Pio" con cui è passato alla storia.
La regola di
Aquisgrana restò a lungo in vigore; vi contribuì anche l'opera di imperatori e
pontefici, di vescovi e di concili, che non lasciarono di insistere per la sua
applicazione. Così al concilio romano dell’826, sotto Eugenio II, ai concili di
Parigi dell’829, di Aquisgrana dell'836, di Maux dell’844, di Magonza dell'847.
di Soissons dell’853, al Capitolare di Lotario dell’832 e al concilio di
Pavia, sotto Carlo II dell'876.[23]
La lunga serie di queste
date segnala un periodo di effervescenza o di inquietudine; in effetti in
questi anni si cominciò a sentire l’ansia e la necessità di una riforma più
approfondita e più spirituale.
Capitolo Quarto
La riforma gregoriana: canonici regolari e secolari
Due movimenti, tra
sé contrapposti, costituiscono il filo conduttore che ci fa comprendere la consistenza
del periodo storico che ruota attorno al fatidico anno mille: un movimento di
decadenza e un movimento di riforma.
È così anche per
altri periodi storici; un movimento è causa dell'altro e provoca quel
caratteristico cammino pendolare, tipico della storia, che ha corsi e ricorsi e
dove sembra di rivivere cose già vissute. Avviene, così, che in un certo
periodo si amino cose precedentemente disprezzate e viceversa. Ed ogni periodo
contiene un valore e il suo contrario: non si può essere manichei nel giudizio.
Il dissolvimento
dell'impero carolingio, nei secoli X e XI, portò incertezza politica. Alla
morte di Ludovico il Pio (840), si aprì la contesa per la successione
imperiale e venne meno l'unità, alla quale, del resto, anche lui fu accusato di
aver attentato, per cui era stato sottoposto a pubblica penitenza. I suoi tre
figli si spartirono l'impero e così il morbo della divisione cominciò a
corrodere; non era problema di semplice frazionamento, ma anche di vera
inimicizia, perché non sempre riuscivano a comporre pacificamente le loro controversie.
Dalla spartizione emerse e si impose pian piano la parte tedesca e perse vigore
quella francese. Fu Ottone I, al di là del Reno, un fiume che fino ad allora
aveva unito, ad imporsi; regnava nella parte orientale, su di una compagine di
popoli o di genti: Alamanni, Sassoni. Frisoni, Turingi, Bavari.
Nel 962 Ottone I
di Sassonia venne incoronato e ricevette la corona imperiale a Roma. Era lui a
scegliere e nominare i cardinali e i vescovi, a distribuire i diritti
"comitali", cioè: immunità, giustizia, tasse, denaro. Si può dire che
la chiesa apparteneva al sovrano: "Eigenkirche", cioè "chiesa
privata". Impose ai Romani di giurare che mai avrebbero scelto o approvato
un papa senza il suo consenso o quello di suo figlio.
In quel momento il
papato è esangue. Dall'800 al 1049 si succedono ben 43 papi; una media di poco
più di tre anni di governo per ciascun pontefice; dunque, il papato sembra
essere in balia dell'imperatore germanico.
Ma, ancora una volta,
la chiesa troverà energie e risorse sufficienti per auto-rinnovarsi, mediante
l'opera di riforma promossa, oltre che dai papi, anche da eminenti figure di
vescovi e alimentata da quanti, chierici o monaci, vivevano sotto una
"regola". I fermenti vitali di rigenerazione erano tutt'altro che
spenti.
Ildebrando da Soana: Gregorio VII.
La periodizzazione
tradizionale riserva al tempo e alla figura di Gregorio VII (107o - 1085) il
merito della riforma della chiesa. È indiscusso che egli ne sia stato un esponente
deciso, per cui è, forse, giusto che la riforma porti il suo nome: "riforma
gregoriana".
In realtà
l'anelito alla riforma era già evidente, ad esempio, nell'opera di S. Leone IX
(1019-1054). Ma essa, bisogna ripeterlo, è il risultato di sforzi molto anteriori,
dovuti a molti personaggi. Come dimenticare l'opera del monastero di Cluny,
fondato nel 910, o quella, vibrante, di S. Pier Damiani, morto nel 1072?
Inoltre la riforma si affermerà molto lentamente, quasi una riforma "a
scoppio ritardato". Quando, nel tempo, saranno ripensati ed assimilati i
suoi inviti e le sue problematiche, la riforma diventerà vita e porterà una
ricca spiritualità.
il papa Gregorio VII viene, comunque, designato come il
promotore di questa riforma.
Egli si preoccupò
di salvaguardare la libertà e l'autonomia della chiesa; per questo ragionò,
innanzi tutto, di distinzione tra potere ecclesiale e potere politico. La
lotta che si combatteva, detta "lotta per le investiture" (dei
vescovi e superiori religiosi, da parte dell'imperatore, ma anche dell'investitura
dello stesso imperatore da parte del papa) non era che il fatto esterno su cui
si scaricarono quelle tensioni e quelle contraddizioni. I due poteri, infatti,
si basavano su un rapporto di vassallaggio, che comportava un obbligo di
fedeltà, garantito da motivazioni sacrali.
L'imperatore
rivendicava la sua autorità da Dio e si proclamava "defensor fidei";
Gregorio ricordava all'imperatore che il legame di fedeltà da parte dei sudditi verso l'imperatore stesso poteva essere sciolto dall'autorità
spirituale. Questo, diciamo, era "il nocciolo duro" della questione.
Ma il papa aveva anche molte e precise questioni da riscattare e da sciogliere.
Le più vistose erano: 1) il diritto di nominare i vescovi; 2) la compravendita
delle cariche ecclesiastiche, con cui i signori feudali controllavano
l'episcopato; 3) il matrimonio dei preti, per cui il clero restava legato alla
struttura feudale, tramite la successione ereditaria.
Il momento
saliente della riforma venne visto nella celebrazione del sinodo lateranense
del 1059. Ildebrando è arcidiacono, influente ed ascoltato; il papa è Nicolò
II. Egli, Ildebrando, prende la parola nell'assise, denunciando i mali della
vita poco esemplare del clero; invita l'assemblea a prendere posizione contro
i capitoli 115 e 122 della regola di
Aquisgrana; fa la proposta di chiedere al chierico il giuramento di servire la
chiesa con fedeltà alla "regola canonicale", offrendo se
stesso e i propri beni per l'uso e il mantenimento dei fratelli, come avveniva
"nella chiesa primitiva".
Luci ed ombre
A parte la
riprovazione dei due testi incriminati, il concilio romano, non accolse le
istanze di Ildebrando. Egli, però, era riuscito a prospettarle come ideale: i
preti abbiano davanti a se il desiderio della perfezione, come gli apostoli e
non solo un mediocre barcamenarsi amministrativo! (Ili apostoli. come è
attestato negli "Atti", avevano preferito alla proprietà individuale
il principio e la prassi della condivisione dei beni. Ora. il possedere tutto
in comune, intravisto come ritorno ad una vita "vere apostolica",
corrisponde al desiderio di migliorare ed innalzare il livello religioso.
Né si deve
restringere l'ansia e l'ideale della riforma gregoriana al solo capitolo della
proprietà (il "vivere in communi sine proprio", questa è la
suggestiva formula che affermerà e che è ancora conservata nella formula di
professione dei canonici regolari; essa comprende anche la castità e il
ripristino della continenza e del celibato. Questo particolare invito è
perseguito e suggerito con motivazioni profondamente spirituali, di ispirazione
eucaristica: il prete, se vuol fare parte del "corpo mistico", deve
alimentarsi del vero "Corpo di Cristo, presente nell'Eucarestia".
Qualche volte, infatti si danno delle spiegazioni molto riduttive e scettiche
del voto di verginità; quasi che la chiesa lo abbia voluto per non frazionare
il proprio patrimonio, se vescovi e preti avessero dovuto provvedere a tigli e
nipoti; oppure quasi che essa fosse funzionale alla vita comunitaria: non
sarebbe possibile vivere insieme se ogni prete avesse moglie e figli. La
verginità si comprende solo se si ragiona in ordine "al Regno dei cieli";
in ogni epoca!
Sono, questi, i
germi di spiritualità che fioriranno in seguito, come tutta la riforma
gregoriana; essa, sul momento, non sembrò portare risultati trascendentali, ma
nel tempo lievitò la chiesa e la società.
Nella teologia
della chiesa, invece, si delinea l'accentramento del concetto della chiesa
stessa interno alla potestà pontificia, attraverso lo strumento del diritto
canonico, attraverso l'allargamento della curia romana e dei legati pontifici:
esattamente una figura di chiesa che il concilio Vaticano II ha cercato di
ridimensionare. "A questo punto si nota l'innovazione di Gregorio VII e dei gregorianisti a proposito delle
origini. Piuttosto che l'esperienza della 'Communio' ecclesiale, s'introduce il
magistero papale, non solo come supplenza di comunione, ma ormai come forma
totalizzante la chiesa. 'Patres', 'Sancti Patres', 'Statuta sanctorum patrum':
in ambiente romano diventano espressioni usate per indicare quasi esclusivamente
i sommi pontefici e le norme da essi stabilite. Tale cambiamento d'orizzonte
conferisce un volto nuovo non solo all'ecclesiologia, ma a tutta la
spiritualità, in quanto si verifica uno spostamento di visuale dalla 'Communio'
ecclesiale all'unico servizio gerarchico primaziale del vescovo di Roma. Forse
ciò è sfuggito agli storici della spiritualità, essendo il problema passato direttamente
dalla competenza dei medioevalisti a quella degli ecclesiologi propriamente
detti. Su questo passaggio, che non temiamo di chiamare 'epocale', influisce
ormai sempre più la perdita del rapporto 'Parola di Dio e Chiesa', 'Eucarestia
e Chiesa". 'Servizio dei vari carismi nella Chiesa'. Il tutto a vantaggio
di una chiesa sempre più giuridicizzata. È sintomatico osservare come la Sacra
Scrittura venga usata o strumentalizzata dai gregorianisti per affermare la
unicità del sacerdozio ministeriale rappresentato dal Papa quale unica
manifestazione della 'divina pietà".[24]
Canonici regolari e canonici secolari
Mentre il sinodo lateranense del 1059 (le cui
decisioni saranno confermate in quello successivo del 1063) si era espresso in
modo piuttosto cauto, anzi difensivo nei confronti del regime religioso antico,
lo stesso Ildebrando (non ancora papa), S. Pier Damiani e altri predicatori si
battevano perché la riforma fosse attuata. Il punto saliente era rappresentato
dalla povertà volontaria e radicale. Così i canonici che restavano fedeli alla
regola di Aquisgrana venivano chiamati "canonici proprietari"
o "canonici saeculares".
C'era del disprezzo, o almeno della disistima,
in questa espressione; ma ingiustamente, perché, in effetti, essi una regola la
osservavano: appunto quella di Aquisgrana. Ad essi le tendenze riformatrici
apparivano come una specie di forzatura, che violava diritti acquisiti e fino
ad ora considerati perfettamente legittimi.
Quelli che
professavano la vita canonica nel senso stretto voluto dalla riforma, furono
detti "canonici regulares". E le espressioni: "communiter
vivere", "regulariter vivere", "canonice
vivere" furono intese sempre più come rinuncia ad ogni proprietà
individuale, con le dovute eccezioni, soprattutto nei primi tempi.
La divisione diverrà più netta e decisa quando
i riformatori, in lotta contro la simonia e il concubinato del clero,
contrapporranno alla regola di Aquisgrana quella chiamata, in genere, "regula
patrum". Questa, in realtà, non era una regola scritta, ma piuttosto
una tradizione, uno spirito, che. rifacendosi alla chiesa delle origini,
osservava la povertà stretta e la condivisione totale. Ormai la 'rottura' fra
i canonici è consumata. Saeculares saranno i canonici che vivono sotto
la regola di Aquisgrana; regulares i nuovi canonici 'in communi
viventes'. 'Communitas', o 'Vita communis', appare come
l'equivalente alla 'conversio morum' o 'regulares'. Lo
attesta la formula di professione. La rottura oltrepassa il mondo canonicale
per raggiungere il mondo dei laici. Il ripristino della comunità di
Gerusalemme aggrega chierici e laici nell'intenzione di riprodurre la vita
degli apostoli. Quindi l'ideale della chiesa primitiva nutre tutte le attività
della 'vita attiva'; è vero che l’hospitalitas' era stata incoraggiata dalla
regola aquisgranese, ora, però, l'aiuto ai 'sancti' segue le orme dei discepoli
degli apostoli. Un'altra caratteristica del movimento canonicale è l'assenza di
un fondatore e di una regola. Ciò significa una fertile dispersione, ma anche
una certa debolezza. Canonici si trovano ai primordi di Gorze, di Cluny, di
Camaldoli, canonici appariranno nella Certosa, tra i 'praedicatores
itinerantes' al bivio tra il cenobio e l'eremo, come protagonisti della
vera vita apostolica. Forse i canonici non tradiscono nessuna forma di vita religiosa,
perché la loro spiritualità si addice a tutte".[25]
Con l'affermarsi della riforma di cui i canonici erano come la bandiera, questi
ebbero una notevole fioritura e diffusione, acquistando molte benemerenze.
Durante tutto il secolo XII
rappresentarono la parte più sana del ceto ecclesiastico (anche se questa e
simili affermazioni di genere sintetico vanno prese con discernimento: il
giudizio globale è sempre approssimativo). La mancanza di una direzione centrale
(questo non vale per i Canonici Regolari Premostratensi) nell'Ordine, già
osservata, ed un certo atteggiamento aristocratico, che si andò affermando
successivamente tra i canonici, furono, insieme al distacco dai vescovi, i
motivi che resero meno efficace la loro presenza. Ironia della sorte, il
distacco dai vescovi fu causato proprio dal fatto che i canonici accettarono il
rigore della riforma! Essi la accettarono, e furono isolati, perché l'insieme
della chiesa non seguì. Saranno gli Ordini mendicanti a portare vitalità e
freschezza tra il popolo Dio: per questo in breve tempo diventarono
popolarissimi, mentre contemporaneamente inizierà la fase di declino dei
canonici regolari.
Capitolo Quinto
La vita comune del clero nel Medioevo
Ma che cosa è la
vita comune del clero?
Con la riforma
gregoriana siamo arrivati al vero spartiacque, che, nella storia della chiesa, divide
il mondo dei religiosi da quello del clero diocesano. Il mondo dei religiosi
(che fino al tempo della riforma gregoriana non esisteva!) si riferisce a
coloro che vivono esenti da una diretta dipendenza dai vescovi, ed hanno
propri superiori; il mondo del clero diocesano vuole, invece, indicare i
sacerdoti alle dirette dipendenze dai vescovi. Al tempo della riforma gregoriana
facevano vita comune i monaci (che erano diretti da propri superiori) ed i
canonici (che fino a quel momento, vivevano insieme al proprio vescovo, salvo
qualche eccezione).
Dire vita comune
del clero vuol dire che il clero vive insieme, condivide l'abitazione, il cibo,
il lavoro, la preghiera, gli intenti, la formazione, ecc.
Agli inizi della
chiesa la vita comune era un movimento che coinvolgeva tutta la chiesa, cioè
tutti i cristiani. Era una caratteristica della fede; i cristiani "stavano
insieme". Si riunivano per ascoltare gli apostoli o i loro successori,
per pregare, per "spezzare il pane". Inoltre si aiutavano
economicamente, fino a mettere a disposizione dei fratelli i propri beni, in
modo "che non vi fossero poveri" tra di loro. In una situazione di
minoranza sproporzionata nei confronti del mondo pagano, ben presto avranno
sentito la preziosità dello stare insieme e dello appoggio reciproco e del
conforto della comunità. C'erano domande alle quali cercare una risposta;
c'erano, soprattutto persecuzioni dalle quali cercare scampo. "Guardate
come si amano!"; la fede cristiana vive nell'unità. Il clero non poteva essere diverso. Anzi! Il livello di comunione, ossia la
concreta realizzazione della vita comune del clero, abbiamo visto, non si può
dire come avvenisse. Si può solo dire che esisteva, dai numerosi accenni degli
scritti dell'epoca, ma essi non ci dicono niente più. I sacerdoti non avevano
ancora l'obbligo del celibato, quindi, la loro vita comune sarà stata più o
meno quella degli altri cristiani. Quando verranno
gli "ordini minori" (diaconi/suddiaconi, accoliti, esorcisti,
lettori, ecc.) avranno fatto vita comune: per provvedere alla loro formazione,
per far fronte, insieme, ai numerosi e nuovi problemi di organizzazione (liturgia,
catechesi, assistenza). Più o meno al tempo della comparsa del
monachesimo, appaiono forme di vita comune di tipo monastico tra il clero, in
genere attorno al proprio vescovo; anzi era il vescovo che prendeva
l'iniziativa. La vita comune del clero, però, univa la vita ascetica dei monaci
con l'impegno pastorale. Il movimento monastico, infatti, era laicale e quindi
più separato dal mondo e più marcato nell'indirizzo penitenziale. Quando comparve la regola di Crodegango, il cristianesimo aveva molto camminato;
l'esempio degli apostoli era quasi un mito, un ideale, detto
"perfezione" (status perfectionis). Se non l'ideale, si cercava
almeno di salvaguardare la disciplina ecclesiastica. Il clero era chiamato a
vivere insieme, magari conservando l'uso parziale o totale dei beni; ecco perché
S. Crodegango dice mestamente che la povertà volontaria "non si riesce a
proporla in modo persuasivo".[26] Durante la riforma gregoriana avvenne la separazione dei canonici in regolari
e secolari, a seconda che avessero accettato o meno una vita in comune
comprendente la rinuncia completa al possesso dei beni. Nel frattempo i monaci
accedono in forma massiccia al sacerdozio (e altrettanto faranno gli ordini
mendicanti, poco dopo la loro fondazione). Inizia, in pratica, quella che oggi
chiamiamo "vita religiosa", cioè il clero distinto da quello
diocesano, con propri ordinamenti e propri superiori. Quando nel 1500
nasceranno i "chierici regolari", in pratica non porteranno altro che
una differenza di vocabolario nel panorama del clero regolare (oltre,
naturalmente, alla freschezza delle nuove fondazioni).
La vita comune dei
canonici regolari.
I canonici
regolari dopo la riforma gregoriana furono obbligati dalle circostanze a
separarsi dal vescovo, per seguire il richiamo della riforma, che chiedeva la
povertà totale; in alcuni casi i vescovi, invece, furono i promotori di questa
riforma e vissero con i propri sacerdoti, ma furono casi episodici. I canonici,
dunque, divennero più regolari e meno canonici. Cosa che avverrà ad ogni
ripresa, ad ogni riforma. La struttura della loro vita, della loro giornata fu,
fondamentalmente simile a quella della vita monastica. In più avevano il
compito pastorale, che, del resto, spesso si riduceva ad uno spirito, più che a
fatti concreti.
Ecco gli elementi
salienti di quella vita comune.
Ufficio Divino
Veniva definito
"Opus Dei". Normalmente era cantato; distribuito nelle ore del giorno
e della notte, secondo l'esempio della ufficiatura monastica.
Rappresentava la massima
occupazione, che dava splendore e senso alle cattedrali e alle chiese maggiori.
Tutti dovevano parteciparvi ed attendervi con la massima diligenza, "religiosissimo
obsequio", come dice la regola di Aquisgrana.
Capitolo.
Era, dopo,
l'Ufficio divino, il momento più importante nella vita della comunità. Era
l'assemblea quotidiana di tutti i confratelli: al mattino, dopo il canto di
"Prima". Vi si leggeva un capitolo della regola (ecco perché il nome
di "capitolo"), qualche volta dei brani patristici, o altro. Il vescovo,
o chi presiedeva, aveva l'occasione per dare avvertimenti o disposizioni.
Pertanto il capo del capitolo non era il "primus inter pares"
come a volte si intende spiegare, ma aveva un’autentica autorità sui membri e
sulla vita della comunità.
Pian piano il
capitolo acquista la fisionomia della comunità stessa che è raccolta, non solo
per ascoltare, ma anche per la propria formazione e per decidere. Far parte di
un capitolo è come identificarsi con esso.
Apostolato.
La cura d'anime da
principio era tutta nelle mani del vescovo, che si avvaleva dei membri del
"presbyterium" come di suoi collaboratori, che agivano in suo
nome. Mentre le chiese rurali ebbero, ben presto, per ovvie ragioni, autonomia
religiosa, in città la cattedrale rimase per secoli l'unica parrocchia. I
canonici esercitavano l'apostolato insieme al vescovo; e questo lo facevano sia
in città che nelle periferie, o, per meglio dire nei suburbi. La vita comune,
prima o dopo la regola di Crodegango o di Aquisgrana, non pregiudicava questo
servizio; semmai lo garantiva. I vescovi più sensibili si premurarono di
salvaguardare la vita comune del proprio clero, anche per averlo più fedele e
più assiduo ai compiti di assistenza religiosa.
L'Ordine dei canonici regolari di S. Agostino
Dopo la riforma
gregoriana e l'incipiente distacco dai vescovi, la vita canonicale ha sbocchi
diversi.
Le nuove sedi dei
canonici regolari si formano attorno a chiese o cappelle, persino eremi, messi
a disposizione di vescovi o capitoli favorevoli alla riforma. Nascono, così, comunità
o congregazioni che si preoccupano dell'ospitalità dei pellegrini e dei
viaggiatori (Gran S. Bernardo), dello studio (S. Vittore); alcune comunità
canonicali organizzano forme di servizi ospedalieri (così fece S. Geraldo di Béziers,
(† 1123); per questo fu fondata, nel 1090, la canonica di Arrouaise, sede di
una congregazione canonicale.
Non tutto è opera
dei monaci, come a volta è dato leggere in certe frettolose e approssimative
sintesi storiche. Ancora una volta è da notare come canonici e monaci, vissuti
fianco a fianco nella chiesa per secoli, abbiano realizzato una continua osmosi
tra di loro, nei vari campi della vita: attività, cultura, spiritualità. Molte
volte si dice: monastero, ma in realtà si tratta di una canonica; si dice: fu
fatto dai monaci, ma possono essere stati canonici regolari. Qualche volta è
la distanza del tempo a far confusione, molto spesso è semplicemente
l'ignoranza.
Alla vita
canonicale della riforma occorrevano nuove leggi, vista la critica verso il permissivismo
delle precedenti regole, soprattutto verso quella di Aquisgrana. E ben presto
ne furono compilate di nuove. Ne ricordiamo alcune, composte da canonici
regolari:
Ø "Consuetudines marbacenses", della
prepositura di Marbach (Alsazia), fondata nel 1089.
Ø "Ordo claustralis", dei canonici di
S. Vittore e S. Giovanni in Monte, di Bologna; un codice manoscritto che si
conserva nell'archivio di S. Pietro in Vincoli e risale al sec. XII.
Ø "Regula Portuensis", dei canonici di
S. Maria in Porto di Ravenna, del 1114.
Ø La regola di Mortara, una congregazione
fondata nel 1083.
Nessuna di queste
regole e nessuno dei rispettivi autori pretesero mai di fondare un ordine;
anzi, normalmente intendevano aiutare i canonici a ritornare alla vita e alle
norme stabilite da secoli. Introducono opportuni adattamenti e ribadiscono lo
spirito serio ed austero dell'istituzione canonicale, fondandolo sulle
direttive autorevoli e sullo spirito della riforma. Contemporaneamente a queste
nuove regole, in modo anonimo, si va affermando la regola di S. Agostino. Non
si può stabilire se, nelle prime volte che veniva adottata, lo era come codice
ispiratore della vita canonicale o come regola in senso stretto. Essa circolava
in diversi testi e con varie aggiunte; senza farne la storia, diciamo che si
afferma quella che oggi conosciamo come la regola di S. Agostino.[27]
È un testo
mirabile per semplicità e moderazione, ma anche per chiarezza ed incisività
nell'esprimere l'essenza della vita comune. Diversi ordini religiosi l'adotteranno
per gli stessi motivi.
Nel concilio di
Reims verrà proposta come unica regola per tutte le case dei canonici regolari:
anno 1131(canone 6). Per i canonici della riforma, è chiaro. Questo canone sarà
approvato successivamente dal concilio generale "Lateranense del 1139),
come è dimostrato dal parallelo che il concilio stabilisce: per i canonici
regolari (e per le canonichesse) c'è la regola di S. Agostino, come per i
monaci (e le monache) c'è quella di S. Benedetto. Da quella data, almeno,
simbolicamente fissata, la regola di S. Agostino divenne la carta fondamentale
dei canonici.
Ad essa venivano affiancate altre leggi particolari e diversificate, secondo
le esigenze e le finalità delle varie congregazioni o canoniche, chiamate
dapprima "Consuetudini" e poi, definitivamente
"Costituzioni". Quindi ogni ramo canonicale ha la regola di S.
Agostino e proprie Costituzioni. Unico legame vero di unione tra le varie
congregazioni è stata la regola di S. Agostino e la denominazione generale di
"Ordine dei Canonici Regolari di S. Agostino". Nel 1959, con la Bolla "Charitatis unitas"
di Giovanni XXIII la maggior parte delle congregazioni dei Canonici
regolari ili S. Agostino ancora esistenti, hanno realizzato una
Confederazione, per valorizzare la loro vita e l'ideale della comunione
Capitolo Sesto
I canonici regolari nei
secoli XIII e XIV
Splendore
La riforma
gregoriana portò l'ordine canonicale ad un vertice di splendore. Nello stesso
tempo lo divise: canonici regolari e canonici secolari.
La divisione, sul
momento passò inavvertita; la ferma decisione di aderire alla riforma
consolava la chiesa; gli episodi di cristallizzazione e di resistenza, si
pensava, sarebbero scomparsi e tutta la chiesa sarebbe stata riformata.
L'attenzione dei
papi fu premurosa e costante per almeno due secoli. Spigolando tra i loro
interventi, possiamo ripercorrere la traiettoria del cammino dei canonici
regolari, fino al vertice del loro momento di massimo splendore, e oltre, nella
fase discendente del declino.
Urbano
II (10SS-1099): esalta la
vita comune presentandola come la più consona all'esistenza dei chierici, perché
corrispondente al modello offerto dagli apostoli. Secondo lui, i canonici non
possono chiedere di lasciare il proprio monastero per entrare in altri, magari di
monaci, di più severa o più alta osservanza: la vita canonicale è insuperabile.
Si tratta certamente di una affermazione di principio; il papa stesso ebbe
atteggiamenti più flessibili, comportandosi con realistico buon senso e a volte
concede l'autorizzazione al passaggio ad altri monasteri, a volte no. Inoltre
egli nomina già la regola di S. Agostino come regola dei canonici regolari (o
almeno come una delle regole che i canonici regolari hanno adottato).
Pasquale II (1099-1118): ha molti rapporti con la
prediletta canonica di S. Frediano (Lucca), di cui chiama a Roma il priore come
collaboratore suo, per un certo periodo. In particolare gli chiedeva di
aiutarlo ad introdurre la vita comune regolare tra i canonici di S. Giovanni
in Laterano. Tratta con i canonici di S. Maria in Porto (Ravenna). S. Rufo
(Avignone), S. Nicola (Arrouaise), il cui fondatore, Conone, viene chiamato a
Roma e fatto vescovo di Preneste, S. Vittore (Parigi), e
altri. Cerca di introdurre i canonici di S. Frediano in S. Giovanni in Laterano.
Questi obbediscono, ma debbono fuggire "persecutione cogente",
come succederà in futuro ai canonici di S. Maria di Frigionaia.[28]
Vi torneranno sotto Callisto II. "quiete reddita".[29]
Nel linguaggio di Pasquale II già si comincia a distinguere che i canonici
regolari professano una forma di vita religiosa; non sono più, cioè, l'unica
forma della vita del clero: nella bolla di approvazione della congregazione
dei canonici di Arrouaise, infatti, li loda perché "sono fuggiti dal
mondo" e sono diventati "servi di Dio", termini solitamente
riservati ai monaci.
Gelasio II (1118): un papato breve. Ha il merito di
aver dato l'avvio alla congregazione dei canonici regolari di S. Norberto, i
Premostratensi (anche se essi fanno risalire l'inizio della loro congregazione
al Natale del 1121, quando un gruppo di quaranta chierici professò la vita
canonicale a Prémontré).
Onorio II (1124-1130): era egli stesso canonico
regolare di S. Maria di Reno di Bologna.[30]
Anche come tale, s'impegna per la diffusione e l'espansione dei canonici. Per
esempio concede il titolo di S. Croce in Gerusalemme al cardinale Gerardo
Caccianemici, canonico regolare, poi diventato papa col nome di Lucio II († 1144/1145).
Sotto il papa Onorio II viene fissata la formula con cui verranno definiti i
canonici regolari: "Ordo canonicus secundum beati Augustini regulam"
(Ordine dei canonici secondo la regola di S. Agostino) e non più semplicemente:
"Ordo canonicus" oppure "Vita canonica". Il perché
di questo passaggio lo si può intuire: ormai la regola di S. Agostino si è
affermata e i canonici si sono maggiormente differenziati proprio per averla
adottata. Ed è a causa di queste espressioni che, spesso la parola
"agostiniano" viene attribuita erroneamente agli "Eremiti di S.
Agostino", confondendoli con i canonici regolari. Un esempio: si dice che
Erasmo di Rotterdam era "agostiniano", in realtà è stato canonico
regolare di S. Agostino, cioè con la regola di S. Agostino (lo fu per un certo
periodo, poi chiese ed ottenne la dispensa dai voti), mentre Lutero era realmente
"agostiniano", cioè apparteneva agli Eremitani di S. Agostino.
Innocenzo
II
(1130 - 1113): di lui si può ricordare che in una lettera all'arcivescovo di
Salisburgo per la conferma della canonica regolare di Berchtesgaden dice con solennità:
"Con la autorevolezza della Sacra Scrittura, affermiamo che la vita dei
canonici è iniziata nella chiesa delle origini".[31] E si può ricordare la
celebrazione del concilio Lateranense II (1139)), in cui si ribadisce il parallelo:
i canonici regolari hanno la regola di S. Agostino, mentre i monaci hanno
quella di S. Benedetto[32], già stabilito nel
concilio di Reims nel 1131.
Eugenio
III (1115-1153): c'è almeno un
episodio significativo nel suo pontificato. L'arcivescovo di Milano, Oberto,
aveva restaurato la propria cattedrale, portandovi la vita comune perfetta,
allora chiese l'approvazione al papa per questa iniziativa. Questi rispose con
una bolla (19/12/1149) in cui. non solo approva l'operato dell'arcivescovo, ma
svolge quasi una lezione in merito. Dice che la povertà personale, la mensa
comune e il dormitorio comune sono punti irrinunciabili della vita comune. E
si rifà all'esempio degli apostoli: "La comunità esiste quando c'è un cuor
solo e un'anima sola, come si legge che c'era nel gruppo degli apostoli".[33]
Adriano IV (1154-1159): inglese,
era canonico regolare di S. Rufo di Avignone (eletto papa dopo il breve
pontificato di Anastasio II). Si contano molti suoi interventi nei confronti
dei canonici regolari, di monasteri, di conferme e benefici loro donati: anche perché
il suo pontificato coincise con un periodo di larga espansione dei canonici
regolari. Si trova a dover risolvere un caso analogo a quello di Milano. Questa
volta riguarda Piacenza e il suo vescovo, Ugo. che voleva la riforma (in senso
"regolare") della sua chiesa. Anche Adriano IV coglie l'occasione per
esprimere il suo pensiero, o meglio la sua dottrina sulla vita comune regolare.
Ne viene fuori una sintesi della concezione ascetica medioevale: viene posto
l'accento sulla santità personale, come risultato della fuga dal mondo e della
vita obbediente ed austera; la cura "animarum" deve essere svolta con
cautela e con attenzione perché può essere occasione di distrazione e pretesto
di mondanizzazione, inoltre è vista prevaletemele come un compito
amministrativo, non come impegno evangelico.[34]
Alessandro
III (1159-1181): possiamo far
risalire a lui il periodo di decadenza dei canonici regolari (queste periodizzazioni
sono sempre un po’ forzate e relative): le frequenti assegnazioni di prebende
canonicali ad ecclesiastici suoi protetti da lui praticate, favorirono il
processo di secolarizzazione dei capitoli e l'abuso della non-residenza. Forse
perché il suo pontificato fu avversato da vari antipapi (Vittore IV, Pasquale
III, Callisto III; ma questa difficoltà fu sperimentata anche dai suoi
predecessori, almeno in parte) e da contrasti col Barbarossa e Enrico III di
Inghilterra (che aveva fatto assassinare Tommaso Becket, che il papa canonizzò
rapidamente. nel 1173): aveva, così, bisogno di ingraziarsi la gente. Certo,
anche lui si mostra preoccupato di difendere la vita comune del clero. Anzi
egli mostra una lodevole e realistica flessibilità (che poi sarà imitata dai
successori) rispettando iniziative locali nell'osservanza della vita comune,
senza schematismi rigidi: "Finché tra voi ci sarà la vita comune
regolare", dice, ad esempio al capitolo di Tolosa; oppure "Per
quanto si possa riconoscere come utile alla crescita della vita comune e al
suo servizio", dice ad Oseney, in Inghilterra.[35] Nel 1179 presiedette il
concilio Lateranense III: ne! canone 10 è vietato ai monaci e ai canonici
regolari di risiedere soli nelle chiese loro affidate. Nel canone l'i si fa
esplicito riconoscimento de! capitolo come organo di decisione e non solo di
"ascolto": le decisioni saranno prese in base alla "maior et
sanior pars".[36]
Declino
Si arriva, così, al grande pontefice Innocenzo III (1198-1216). Sotto il suo
pontificato avviene una svolta decisiva nell'ambito della vita religiosa con la
nascita degli ordini mendicanti (Domenicani, Francescani, Carmelitani,
Agostiniani, ecc.).
La
loro novità è, sia di ordine spirituale (fraternità, povertà, comunitaria,
slancio apostolico itinerante), sia di ordine organizzativo (regime centralizzato).
I papi del tempo sostennero il loro sviluppo e ne favorirono ben presto la clericalizzazione,
per dare ai fedeli un clero all'altezza delle loro aspettative.
I canonici regolari difettano di una organizzazione centrale. Il fatto, unito.
al crescente distacco da un rapporto stretto con i vescovi, li isola in gruppi
diversi. Perché, privi di una struttura unitaria, essi sono soggetti
all'iniziativa del vescovo diocesano, tutt'al più organizzati nell'ambito regionale,
esposti a modifiche ad ogni mutare di vescovo, con vita discontinua. spesso impaniati
in dispute patrimoniali, non potevano che apparire come un movimento fragile,
di relativa affidabilità. Anche se alcuni nuclei sono fervorosi ed influenti e
il movimento canonicale è diffuso quasi ovunque (a raggio europeo), da questo
momento storico, i canonici hanno imboccato una via defilata. Con molto
realismo i papi favoriscono anche altre forme meno "canoniche" di
vita canonicale: questo porta calo di fervore e di impegno, sia nella pratica
della vita comune, sia nella presenza pastorale.
Non
che i papi trascurino i canonici regolari; alcune iniziative vengono prese;
forse, però, senza il necessario mordente e una larga prospettiva, vista anche
la scarsa corrispondenza dei canonici.
Innocenzo
III, nel concilio Lateranense IV (1215), fa approvare una mozione in cui si
obbliga i canonici regolari a celebrare capitoli triennali provinciali (canone
12). Si tratta di provincie nel senso geografico, non nel senso di suddivisioni
dello Ordine, che ancora non esiste come organizzazione autonoma. Lo scopo era
quello di discutere seriamente sull'ordine canonicale sulla sua continua
riforma e gli adattamenti necessari. I capitoli possono essere guidati da due
visitatori esterni (per lo più cistercensi esperti in questo genere di
riunioni) che avevano ampie facoltà discrezionali. Salvo rari casi (c'è, ad
esempio, notizia di un capitolo celebrato a Salisburgo nel 1271 e la notizia di
capitoli abbastanza regolari in Inghilterra, celebrati praticamente fino alla
riforma protestante), il provvedimento resta praticamente disatteso.
Bonifacio
VIII (1294-1303): nel 1299
sostituisce i canonici regolari di S. Giovanni in Laterano, con 15 canonici
secolari. I canonici regolari vi erano giunti da S. Frediano e vi erano da
ormai 175 anni. La motivazione di questa sostituzione non è delle più
convincenti: i canonici secolari appartengono a famiglie romane, dunque avranno
più a cuore gli interessi della cattedrale del papa. Dovranno passare altri 140
prima che i canonici regolari tornino in S. Giovanni in Laterano: questa volta
saranno quelli di S. Maria di Frigionaia (Lucca). Anche la loro sarà una
permanenza temporanea, sufficiente, però, per averne il nome di "Canonici
Regolari Lateranensi".
Benedetto
XII (1334-1342): opera un
altro intervento, rimasto per molti anni come punto di riferimento per la vita
canonicale, con la bolla "Ad decorem Ecclesiae sponsae". In
essa si rivede tutto l'ordinamento spirituale e quello giornaliero della vita
dei canonici regolari; il documento diventa una specie di regola" dei
canonici. Ribadisce l'obbligo dei capitoli triennali, già richiesto dal
concilio Lateranense IV (can.12); anzi inasprisce questa disciplina fino a
colpire di scomunica chiunque impedisca la loro celebrazione: segno di una
certa tensione, quando le iniziative assumono caratteri così nevrotici e
minacciosi.
Siamo nel corso della
permanenza dei papi ad Avignone, causata sia dall'influenza della politica
francese, sia dall'obbiettiva insicurezza della vita a Roma. I papi erano
andati via da Roma praticamente all'inizio del 1300: Benedetto XI (1303 - 4),
visto fallire un tentativo di conciliazione con i Colonna, che gli militavano
contro, fuggì da Roma; dapprima di rifugiò a Viterbo, poi a Perugia, dove
stabilì temporaneamente la corte pontificia: quindi la corte pontificia fu
trasferita ad Avignone (1309), dove rimase per quasi tutto il secolo. Ci fu una
breve permanenza di Urbano V a Roma (1368-1370); ma il papa tornerà a Roma, in
modo definitivo il 17 gennaio 1377 (sarà Gregorio XI).
La
maggior parte dei documenti del secolo XIV, come si sa, è andata perduta,
quindi non si può accertare quale effettivo impatto abbiano avuto le direttive
del papa Benedetto XII, pur tanto tassative. Tuttavia nel panorama generale
emerge il quadro di un declino inarrestabile, non solo dei canonici; è
"l'autunno della chiesa". L'autunno prepara la stagione nuova.
Qualche volta, come abbiamo osservato, le due stagioni convivono, perché la
vita è sempre complessa e nello stesso periodo si possono vedere segni di decadenza
e segni di vita nuova. Intanto, però, sulla chiesa si abbatte un nuovo
problema: poco tempo dopo il ritorno del papa a Roma scoppia "Lo scisma
d'Occidente", che per molti decenni porterà turbamento e confusione nella
coscienza cristiana, incerta sulla scelta di due e perfino di tre papi (1378-1417).
Anche i
vescovi furono coinvolti nelle fazioni e nelle lotte che dividevano regioni e
città e di conseguenza la vita del clero, meno vigilata, diventò maggiormente
indisciplinata. Il senso religioso del popolo cristiano, fortemente radicato,
non venne meno; tuttavia qualche cosa stava mutando e profondamente. Per
esempio i racconti beffardi e licenziosi dei novellieri dell'epoca mostrano un
rapporto nuovo della cultura verso la chiesa e la realtà umana, nuovo e venato
di anticlericalismo, sia pure più ridanciano che polemico. A questo si deve
aggiungere la crisi della "Scolastica", intaccata dalla nuova
spiritualità popolare, immediata e devozionale, propagata dai nuovi ordini
religiosi e dal loro apostolato itinerante, spesso estemporaneo e bizzarro. Visto
che il nostro interesse è volto verso la vita comune, può essere interessante
ed illuminante osservare la nascita, in questa epoca, di confraternite e terzi
ordini e pie congregazioni, sia laicali che sacerdotali: segno che la vita
comune esercita sempre, nell'ambito cristiano, un richiamo irresistibile, e se
muore in qualche forma, subito rinasce in forme nuove. Ci si avvia, in
sostanza, verso una nuova fase culturale, che sarà definita "Umanesimo",
perché al centro dell'attenzione universale colloca l'uomo con le sue
problematiche e le sue istanze. Problemi concreti della chiesa, soprattutto della
vita religiosa, connessi con questa situazione, sono: la commenda e il
superiorato a vita. Li nominiamo in particolare, non perché siano stati gli
unici o più gravi, ma perché verranno affrontati con particolare decisione
dalle congregazioni canonicali che stanno per nascere nella nuova riforma che
si profila nella vita della chiesa, nel secolo che seguirà, cioè nel 1100. Una
riforma, vedremo, che si svilupperà in sordina e non riuscirà ad imporsi come
fenomeno di massa. I canonici regolari che nasceranno in questo periodo
(Lateranensi, Renani) sceglieranno il sistema della mobilità dei confratelli da
una casa all'altra; vorranno che gli incarichi di governo non durino di un anno
ed infine vorranno che le canoniche in cui vivranno non siamo mai più date in
commenda, ma appartengano pienamente ai confratelli. E queste non sono che le
manifestazioni esteriori di un desiderio di vita spirituale, di ritorno al
vangelo in tutta la sua purezza; insomma della rinascita della vita
canonicale, questa volta organizzata in forma di vero e proprio ordine religioso.
Con questo ulteriore passaggio storico si competa la parabola del cammino dei
canonici regolari; sono partiti nel cuore della chiesa, accanto e insieme ai
loro vescovi; sono stati staccati da essi per aver seguito un invito alla
riforma (quella gregoriana) che avrebbe dovuto essere di tutta la chiesa e di
tutto il clero; ora sono iscritti tra gli ordini religiosi. Per secoli hanno
creduto, professato e praticato la vita comune del clero. Chissà che la loro
lunga storia non sia stata voluta e condotta dalla Provvidenza perché anche ai
nostri giorni (e in quelli futuri) si conosca e si pratichi lo stesso ideale.
[1]
A. Ferrua: “Il dialogo che ci salva”; Marietti, 1972
[2]
K. Baus, storia della chiesa, diretta da H. Jedin, vol 1, p. 181; Joca Book
1975
[3]
Cfr Mansi 2.676; Conc. Nic. C. 16; Bruns, I, 1941, p. 155
[4]
“Placuit in totum prohibere episcopis, presbyteris et diaconibus vel omnibus
clericis positis in ministerio abstinere se a coniugibus suis et non generare
filios; quicumque vero fecerit, ab honore clericatus exterminabitur”.
[5]
K. Bihlmeyer - H. Tuecle: storia della chiesa; Morcelliana 1967, vol. 1, p. 137
[6]
Testimonianza si trova in Eusebio: Historie Eccles., 6.43
[7]
CSEL 69, 90
[8]
F. Poggiaspalla: la vita comune del clero, Roma 1968, p. 25-26
[9]
“”la prescrizione degli eretici” 41,2.
[10]
“Anamnesis”; Marietti 1986; vol 3/1, p. 25 e 33
[11]
Clara Bruni: “La spiritualità della vita quotidiana” EDB, 1988, p. 69-74
[12]
Juffgmann: “Missarum sollemnia”, Torino 1961, p. 16
[13]
M. Augé: “storia della vita religiosa”, Queriniana 1988, p. 5
[14]
F. Poggiaspalla, o.c. p. 31
[15] “Operarios qui mecum
sunt”.
[16] PL, 16, 1207-1209
[17]
Migne, 59, 415-520
[18]
Sull’affermarsi dell’espressione “vita canonica”, cfr Mansi, 8.785; 9.994;
10.626; 11.140)
[19]
“Hanc debes conversationem instituere quae initio nascentis ecclesiae fuit
patribus nostris, in quibus nullus eorum ex his quae possidebat aliquid esse
dicebat”.
[20]
R. Grégoire: “La vocazione sacerdotale” ed. Studium 1982, p. 24
[21]
“Canones dicimus regulas, quas Sancti Patres constituerunt, in quibus scriptum
est quomodo canonici, id est regulares clerici vivere debent”. La citazione è
da C. Egger “Canonici Regolari” in Dizionario degli Istituti di Perfezione;
1975, vol. II, p. 47
[22]
R. Grégoire: La spiritualità canonicale; in “Le grandi scuole della spiritualità
cristiana”, ed. O.R. 1984, p. 291
[23]
Per tutte queste notizie cfr Poggiaspalla, o.c. p. 133
[24]
B. Calati: “La spiritualità del Medioevo”; ed. Borla 1988, p. 95-96
[25]
Eutimio Sastre Santos: “storia della vita religiosa”, ed. Queriniana 1988, p. 277-8
[26]
Regola di S. Crodegango, cap. 31
[27]
Cfr DIP, vol. 2°, p. 58
[28]
Cfr La seconda parte, al cap. 3°
[29]
Migne, PL., CLXIII col. 1201, n. 127
[30]
Cfr la parte seconda, al cap. 2°
[31]
“Divinae Scripturae pagina testante, dicimus quod canonicorum vitam a primitiva
Ecclesia sumpsit exordium” (Migne PL, CLXXIX, 628)
[32]
Cfr canoni 9 e 28
[33]
“Debet esse cor unum et anima una, ut etiam in coetibus apostolorum legitur,
communitas”.
[34]
PL CLXXXVIII, 1570 - 1578
[35]
“donec apud vos canonicus ordo duraverit” (a Tolosa)
“quoad ad regularis observantiae
augmentum et rei communis commoditatem spectare nascat” (ad Oseney).
PL.
CC, 156
[36]
Non si sa ancora decifrare esattamente il computo di questa espressione “la
parte maggiore e migliore”